Chissà a cosa pensa, se pure pensa a qualcosa,
quando entra furtivo nella mia stanza e resta in piedi, dietro di me, a
controllare il susseguirsi veloce delle lettere che compaiono sul monitor del
mio computer.
Ricordo che i primi tempi si prendeva il disturbo
di fingersi impegnato in interminabili telefonate. Ora probabilmente ritiene
che il suo status di capo lo renda immune da qualsiasi indulgenza alla buona
educazione. Chissà cosa direbbe nonna Rosa, se fosse ancora viva, qualora le
raccontassi dello squallido ufficio dove trascorro dieci ore al giorno, tutti i
giorni, da due anni. Chissà cosa direbbe delle macchie di umidità che sporcano
il muro, dei bagni costantemente sporchi - il
personale delle pulizie costa- , del lavoro, sempre uguale, sempre lo
stesso, che svolgo da settecentotrenta giorni.
Lo so: ora mi farete notare che due anni di lavoro
non sono settecentotrenta giorni, perché al conteggio bisogna sottrarre i
weekend. E’ vero. Ma, a parte che lavoro anche di sabato, la domenica sono così
annichilita da una sorta di torpore mortale da avere la sensazione di essere
ancora seduta al computer ad inserire dati. Ah, dimenticavo: è questo il mio
lavoro. Inserire dati. Nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, cellulare
(campo facoltativo), indirizzo e-mail (campo obbligatorio). Decine, centinaia,
migliaia di schede anagrafiche ogni giorno. I primi mesi, per tenermi desta, mi
sforzavo di immaginare per ognuno di questi
nomi un volto, una famiglia, una vita sentimentale. Ma questa intensa attività
clandestina a fine giornata mi lasciava sfinita, quindi ho presto rinunciato,
anche perché, probabilmente, doveva evincersi qualcosa dalla mia espressione,
visto che un giorno, senza alcun motivo evidente, il capo mi ha fatto una
terribile sfuriata, ricoprendomi di epiteti irripetibili. Quando urla in quel
modo, le nuove arrivate (ne arrivano sempre) si spaventano e ci guardano in
cerca di qualche segnale che le aiuti ad allineare il loro stato d’animo sul
pianale di emozioni condivise. L’impassibilità mia e delle mie colleghe,
allora, si accentua: è un modo silenzioso per dir loro di non preoccuparsi, che
va tutto bene, che passerà presto. E invece, nonna, non va tutto bene. A volte,
specie quando il giorno delle paghe non ci viene corrisposto lo stipendio, e
guai a chiedere spiegazioni, le lacrime, quasi dotate di volontà propria, mi
spuntano negli occhi e lo sforzo di non farle colare giù mi impegna in una
battaglia di cui mi sento unica sconfitta. Allora, per darmi coraggio, passo in
rassegna mentale tutti gli articoli del codice civile in materia di lavoro.
Chissà cosa diresti, nonna, se mi vedessi a lavorare qui, mentre il mio capo mi
urla addosso che sono un’idiota, cosa diresti, nonna, se sapessi che ho messo
in un cassetto la mia laurea in giurisprudenza perché cinquecento euro al mese
mi servono per non gravare sulla pensione di mamma. A lei non racconto queste
cose, non voglio che si preoccupi per me, e allora invento divertenti ed
improbabili cause legali che lo studio presso cui collaboro mi affida con
fiducia. Non le ho mai detto che ho lasciato lo studio due anni fa, quando è
morto papà, perché le promesse di una regolare retribuzione sono rimaste tali.
E quando penso alla mamma, immediatamente la mia rabbia si stempera in una
docile rassegnazione, dove vanno a finire tutti i propositi di rivalsa e le
intenzioni di far valere i miei diritti. Beh, sarebbe una grande soddisfazione,
ma poi, senza i miei cinquecento euro al mese cosa farei?
Però nonna, lo sai che qui dentro c’è anche del
buono? Alcune mie colleghe sono fantastiche e due di loro sono diventate mie
amiche: Carla e Margherita. La nostra è una solidarietà fatta di sguardi,
perché sul lavoro non possiamo parlare tra di noi e non abbiamo diritto a
pause, ma quando usciamo di qui parliamo, e come se parliamo. E allora ci
facciamo forza l’una con l’altra e ci raccontiamo i nostri sogni, anche se
Margherita si infuria quando parlo di sogni: lei preferisce parlare di
legittime aspirazioni, perché “chiamare
sogni i propri desideri significa inconsciamente attribuir loro l’etichetta di
irrealizzabilità”. Margherita è così, usa le parole in maniera mai casuale,
d’altronde è una giornalista e sogna, anzi, aspira, a scrivere un giorno non
troppo lontano per una grande testata. Quel giorno, la canzona Carla,
Margherita sarà un’importante corrispondente di guerra e lei un’acclamata
attrice di teatro. E io quel giorno sarò in prima fila ad applaudirla e a
ricordarle che i sacrifici fatti all’accademia di arte drammatica sono valsi a
qualcosa. E tu, cosa vorresti fare, Rosa?
Quando me lo chiedono io alzo le spalle, ma in fondo al cuore so che vorrei
fare l’avvocato, tutelare gli interessi dei lavoratori e ridare dignità a tutte
quelle vite ricoperte di foglie morte come la mia. E quel giorno, nonna, sarà
un giorno bellissimo.
(Questo mio racconto è stato pubblicato dall'Antologia True Stories - verità del terzo millennio)
bello. vero, asciutto, profondo, mai retorico, mai banale, mai pietistico. michela complimenti!
RispondiEliminaGrazie! Era proprio quello l'intento!
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