I comportamenti violenti ad opera di adolescenti e di
insubordinazione di allievi verso gli insegnanti si ripetono con crescente
frequenza e le responsabilità si palleggiano tra la scuola e le famiglie.
Quando leggo di questi episodi, non posso fare a meno di ricordare
un’esperienza che ho vissuto personalmente.
Ho lavorato per un anno come tutor per un progetto formativo
finanziato dalla Comunità Europea in un Istituto Professionale della provincia
di Salerno. Il progetto era destinato a ragazzi
cosiddetti “svantaggiati” che avevano abbandonato la scuola e che si tentava di
recuperare. Erano studenti del terzo anno, per lo più ripetenti, di età tra i
16 e i 18 anni. Ho vissuto momenti da incubo (mi hanno anche danneggiato
l’auto), tra l’indifferenza degli altri insegnanti (quasi tutti si limitavano a
leggere il giornale in aula) e la rassegnazione del preside. Ma ho riscontrato
anche una profonda umanità in ragazzi che solo le condizioni di partenza
rendevano diversi dagli altri. All’inizio mi hanno fatto la guerra: il primo
giorno di scuola uno di loro ha dato fuoco ad una sedia; fumavano, giocavano a
carte in classe, si picchiavano selvaggiamente tra di loro ed erano
completamente indifferenti a qualsiasi stimolo.
Poi, un giorno, l’episodio che ha segnato la svolta: dovevamo trasferirci in laboratorio per la lezione
d’informatica, io mi ero avviata fuori dall’aula e avevo dimenticato la borsa
sulla cattedra. Invece di tornare indietro a prenderla chiesi ad uno dei
ragazzi, nella fattispecie uno dei più irruenti, la gentilezza di portarmela,
notando solo in un secondo momento gli sguardi sorpresi di molti di loro.
L’insegnante di informatica che era con me mi riprese duramente, dandomi della
folle: secondo lui i ragazzi avevano più volte derubato i docenti. A quel
punto, però, decisi di fidarmi fino in fondo, non senza, lo ammetto, il timore
di aver fatto una sciocchezza. Voltai del tutto le spalle al ragazzo al quale
avevo chiesto di recuperare la borsa e mi avviai in laboratorio. Dopo pochi
minuti mi raggiunse l’intera classe, in religioso silenzio, senza spintonarsi
come faceva di solito, senza lamentele, né improperi. In quel momento notai che
qualcosa era cambiato: per la prima volta si riuscì a fare una lezione vera,
tutti seduti ad ascoltare l’insegnante, non una classe modello, per intenderci,
ma una classe normalmente vivace. Inutile dire che dalla mia borsa non mancava
nulla. Da quel giorno il “compito” di portarmi la borsa diventò una specie di
rituale a cui i ragazzi si sottoponevano a turno, quasi litigando tra loro,
forse orgogliosi del fatto che i professori che li avevano sempre considerati delle
nullità potessero scorgerli per la prima volta sotto una luce diversa. E non
dimenticherò mai il giorno in cui, mentre tutte le altre classi scioperavano,
la mia fece lezione regolarmente, lasciando stupefatto il preside che entrò in
aula senza nemmeno bussare, convinto che fosse vuota, visto che non si udiva il
minimo frastuono all’esterno. La mia opinione, in seguito a questa esperienza,
è che spesso ragazzi che vivono in condizioni difficili - quasi tutti avevano
genitori in carcere, altri erano orfani, tutti erano cresciuti per strada-
semplicemente non conoscono nessun altro modo di vivere se non quello di
rispettare le regole di un branco ottuso e violento.
Una maniera, tuttavia, per far breccia nei loro cuori c’è stata:
è bastato trattarli come essere umani e restituire loro un briciolo di dignità,
capire che se tutti li considerano delle bestie essi stessi sono i primi a
considerarsi tali. Durante la prima settimana, infatti, uno di loro mi disse: “Vui
vulit cagnà e ’ccose, ma statv accort cà nui nun simm come all’at” (voi volete
cambiare le cose, ma state attenta perché noi non siamo come gli altri).
E’ chiaro: forse non impareranno mai il latino e il greco,
molti di loro non riuscivano a parlare nemmeno in italiano, ma alcuni avevano
intelligenze brillanti e alla fine dell’anno, anche se non si riusciva a
spiegar loro la Divina Commedia ,
si commentavo i film, si dialogava delle loro vite, di quello che pensavano, di
cosa volevano fare da grandi e spesso dai loro racconti emergevano degli
spaccati da brivido che mi facevano chiedere quale diritto abbiamo di giudicare
esistenze così disperate, soprattutto quando la maggior parte degli adulti che
questi ragazzi hanno incontrato getta la spugna sin dall’inizio, ritenendo il
loro percorso irrimediabilmente compromesso.
Soltanto quando ho sospeso il giudizio ho cominciato non
solo a vederli, ma a guardarli veramente. E penso che per un unico sguardo di
reale interesse, e non più di disprezzo, quei ragazzi avrebbero fatto qualsiasi
cosa.
Scusami se ti riporto una voce antica, persa nella nebbia del tempo. Diceva il grande Lao Tze:
RispondiElimina"Chi non ha fiducia, non ottiene fiducia."
E la tua esperienza conferma, ancora una volta, la validità delle parole del grande Saggio. Ma al di là di questo, l'emozione che tu hai provato nel dare fiducia e nel vederti ripagata da persone che altri hanno tenuto ai "confini", come sai bene, non ha eguali e non e non è stato un caso il "punto di svolta" ma è stato un qualcosa che ti appartenenva già da prima che si è solo esplicato nella sua forma migliore
sono pienamente d'accordo con te: sono esperienze che raccontate, forse si banalizzano, ma che ti lasciano dentro un insegnamento che dura tutta la vita...
Elimina