mercoledì 19 giugno 2013

Lo ammetto: io adoro I promessi Sposi.


Ebbene sì, lo ammetto: io adoro I promessi Sposi.
Proprio quel mattone che si è costretti a studiare di malavoglia a scuola, in un susseguirsi di noiose descrizioni, addii ai monti imparati a memoria, panni sciacquati in Arno e un autore, il Manzoni, che non sembra brillare per simpatia.
Eppure …

Eppure se I promessi Sposi sono da secoli considerati un capolavoro, un motivo deve pur esserci.

In realtà i motivi sono tantissimi: chiudete gli occhi e provate per un attimo a dimenticare il noioso romanzo studiato da ragazzi. Cercate di immaginare un secolo, il Seicento, come un turbinio di colori, sfarzi, ampollosità, ricchi prepotenti, uomini scellerati e violenti a cui fa da contraltare una massa di poveri senza diritti, in balia dei “signori”.
Ecco presentarsi, quasi a fare da cerniera, personaggi comici e rocamboleschi come Don Abbondio, curato di campagna per il quale il quieto vivere è la cosa più importante: provate a immaginare cosa deve aver sentito quando, in fondo alla stradina che percorre per tornare a casa, individua due loschi figuri che, vedendolo, si danno di gomito e si avvicinano.
E da allora gli eventi si rincorrono vorticosamente, con falliti matrimoni e rapimenti, fughe, minacce, colpi di scena, separazioni, soprusi, vendette, terribili epidemie …
Trovo drammaticamente indimenticabile la scena di Fra Cristoforo, umile frate, che osa recarsi nel castello di Don Rodrigo a minacciarlo, puntandogli un dito in faccia e provocando il terrore, immediatamente smorzato nell’arroganza, del nobile prepotente che, pur di non dar voce alla sua paura, gli afferra la mano e lo caccia via.

Io adoro i Promessi Sposi perché lo trovo un romanzo ironico e a tratti comicissimo. D’altronde come non ridere con il Manzoni per la pettegola Perpetua che nessuno ha voluto, ma che continua a dire di aver rifiutato tutti i pretendenti? E che dire del rocambolesco, fallito tentativo di matrimonio a sorpresa, quando gli oppressi sembrano oppressori, con quella indimenticabile frecciata finale del Manzoni: “Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza di un oppressore;eppure, alla fin dei fatti era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente ai fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”.

Non è risparmiata dall’ironia neppure la folla, ad esempio quando assalta i forni distruggendoli, inducendo Renzo a chiedersi in quale modo pensi di poter ottenere il pane, avendo ora distrutto i forni: nei pozzi?
E adoro la scena dei due capponi, sballottati per tutto il tragitto che compie Renzo per andare dall’avvocato Azzeccagarbugli (non me ne vogliano gli avvocati, però che fantastico soprannome!), fino a quando il giovane torna a casa di Lucia e Manzoni  ci dà un ultimo ragguaglio sulla situazione dei due volatili: “entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima triste vicenda delle povere bestie, per quel giorno”. 

Sullo sfondo, pagine così violente che si fa fatica a leggerle e che oggi troverebbero felicemente posto in un film dell’orrore: la peste, i cadaveri deformati che infestano le strade, gli untori, i monatti con i campanelli, la disperazione della gente, l’ indimenticabile lirismo della scena della madre di Cecilia…

E Lucia, questa figura femminile che ci viene sempre tramandata come delicata e fragile, quasi ornamentale, e che, invece, ha una forza interiore incrollabile, capace di far convertire persino un uomo di violenza inusitata come l’Innominato, uno dei personaggi più affascinanti e suggestivi della letteratura di tutti i tempi. Meraviglioso il dialogo tra i due, con lei inginocchiata ai  suoi piedi e lui tormentato da un rimorso a cui ancora non sa dare un nome, “quel demonio nascosto nel suo cuore”…

Che dire, inoltre, dell’agghiacciante racconto della Monaca di Monza e di quel terribile padre, che oggi non si farebbe fatica a definire un mostro?

Trovo che rileggere i Promessi Sposi a distanza di tempo, lontani dai banchi di scuola, sia come vedere il davanti di un arazzo di cui negli anni precedenti si è tessuto il retro e ammirarne finalmente lo spettacolare disegno.


martedì 18 giugno 2013

La dama con lo stendino


Al centro dell’affresco “La scuola di Atene” troneggiano le due figure imperiose di Platone ed Aristotele, il primo ad indicare il cielo, l’altro la terra.
Due gesti soltanto per illustrare con immediatezza due opposti modi di concepire l’universo.

Mi chiedo, dunque: esistono gesti in grado di rappresentare le persone?
Esiste un solo gesto capace di definire con estrema precisione il carattere di un individuo?

Inoltre: se per ignoti motivi  grandi artisti del passato, come Leonardo da Vinci o Raffaello, fossero ancora vivi e avessero un irrefrenabile desiderio di ritrarre la donna d’oggi, con quale gesto la rappresenterebbero?
Esiste un unico, inequivocabile gesto in grado di esprimerne la personalità?

Un momento: Leonardo oggi con ogni probabilità non “arriverebbe a fine mese” facendo la vita dell’artista e verosimilmente il suo infinito talento dovrebbe mortificarsi in un impiego più comune.
Magari Leonardo oggi farebbe il pubblicitario.
Il Pubblicitario?!?

E come ritrarrebbe il Leonardo-pubblicitario la donna d’oggi?

Palesandone i sentimenti, i dolori, le speranze?
Beh, così il prodotto non venderebbe!
Sulla scia della lezione di molti “creativi” italiani dell’ultima generazione, forse anche Leonardo raffigurerebbe la donna nella sua “funzione d’uso”, magari voluttuosamente distesa sul cofano di una Porsche o con in mano un mestolo, mentre sorride beata alla scatola di conserve.


Cosicché, invece della dama con l’ermellino, oggi potremmo forse ammirare la dama con lo stendino ….

domenica 16 giugno 2013

L'impegno di un uomo impegnato con una donna impegnativa


Alzi la mano chi tra le esponenti del gentil sesso non si è mai imbattuta nel tipo troppo impegnato per impegnarsi. Ma guardiamolo più da vicino, questo esemplare, purtroppo nemmeno in via di estinzione, di mammifero bipede.
Il modo di fare di questo soggetto, che per comodità chiameremo Mr Right (ma è right solo nella sua testa, right?) è solare, divertente, ironico, leggero e tutte queste caratteristiche lo hanno reso interessante agli occhi di una Lei, per la quale non spenderemo acronimi né nomi propri, giacché il pronome ne universalizza la condizione.

Cosa non da non dimenticare è che Mr Right è una persona impegnata. Impegnata nell’accezione più variegata del termine. Impegnata in interminabili riunioni, impegnata davanti ad uno schermo che trasmette le immagini edificanti di 11 persone in mutande, impegnata a sollevare pesi, impegnata a coltivare rapporti di ogni tipo. Insomma, è decisamente impegnato. E lei? Risulta troppo impegnativa per un tipo tanto impegnato come il nostro Mr Right.

Viene condotta con un balzo repentino nell’allegra vita circense di Mr Right, svolgendo con maestria, come si confà ad una vera artista da circo, il ruolo di un equilibrista e di un saltimbanco, attenta a stabilire il nuovo record di attività svolte al secondo, nella fattispecie tragitto ufficio casa/doccia/trucco/parrucco/vestizione/sorriso/serata con Mr Right, destinazione ignota, perché, ricordiamolo, Mr Right ama le sorprese. Errata corrige: Mr Right ADORA le sorprese, per usare un verbo a lui congeniale, applicabile pressoché ad ogni campo dello scibile umano, dal gelato al puffo, alla teoria della metempsicosi.
D’altronde trattasi di verbo poco impegnativo e Mr Right, pur essendo impegnato su molteplici fronti, ADORA le cose poco impegnative.

Dunque, la vita di Lei diventa una girandola di eventi durante i quali deve ottemperare al compito di accompagnatrice sorridente e consenziente, mettendo in luce il suo ruolo migliore: quello decorativo.
Il suo modello di riferimento è quello della lampada IKEA, mod. Girasole, disponibile nei colori del bianco e del nero: la monti quando vuoi e l’impegno economico è minimo, per cui, se si rompe, la perdita non è rilevante.

Non pensiate, tuttavia, che Mr Right non dimostri attenzioni verso Lei: talvolta, strano ma vero, ne ascolta addirittura i pensieri, i desideri, le rimostranze, puntando poi deciso ai desideri: i suoi. D’altronde il capitolo “rimostranze”, con relativo ed ignorato decalogo, merita un approfondimento.
Il dizionario Zanichelli Smart, al quale si affida ciecamente il nostro Mr Right, riporta la seguente definizione: “Sono ascrivibili alla categoria rimostranze tutte quelle manifestazioni, tipiche dell’uterino universo femminile, atte ad indirizzare l’attenzione del soggetto maschile su inesistenti problematiche di ordine metafisico”.
A queste rimostranze che possono, nei casi più gravi, addirittura sfociare in palesi manifestazioni d’amore, il nostro Mr Right risponde, non necessariamente in quest’ordine:
1) cambiando repentinamente discorso (sport nel quale si laurea campione europeo dopo una combattutissima finale con il campione spagnolo Pindaro)
2) attingendo al suo massiccio bagaglio di umorismo becero, appreso durante la frequentazione di corsi accreditati tenuti dal docente Prof. Tomas Milian
3) ridicolizzando le suddette rimostranze attraverso il fagotto pervenutogli in eredità dal movimento culturale “L’uomo che non deve chiedere mai” secondo cui, quando la fonte è una bocca femminile, i contenuti espressi non hanno credibilità alcuna.


Ora, dopo che Lei sciorina a Mr Right tutto quanto sopra esposto, lo prega di non azzardare risposte, che si ridurrebbero ad un mero esercizio di stile, attività nella quale Mr Right eccelle. Tuttavia il motivo più importante in virtù del quale Lei non gradisce risposte, è un altro: non ha tempo di ascoltare. E’ impegnata.

Contro i mulini a vento


C’è un velo di struggente tristezza nelle pagine del Don Chisciotte di Cervantes: il folle cavaliere di un piccolo paese della Mancia che, dopo aver letto decine di libri che hanno per protagonisti prodi cavalieri, decide di imitarne le gesta. Perciò si procura l’armatura dei suoi avi, ribattezza il suo magro cavallo Ronzinante, si attribuisce il titolo di  Don Chisciotte della Mancia ed elegge come sua nobile dama una contadina del luogo, alla quale cambia il nome in Dulcinea del Toboso: a lei l’improbabile cavaliere dedicherà tutte le imprese, nelle quali sarà seguito da un povero contadino, Sancho Panza, persuaso a fargli da scudiero. Le sue mirabolanti avventure lo vedono combattere contro i mulini a vento, scambiati per orribili giganti, vedere fastosi castelli in squallide osterie, eserciti di soldati in miti greggi di pecore. Perseguitato dalla storia, deriso da tutti, Don Chisciotte ha una follia punteggiata da momenti di lucidità estrema. Ma proprio quando sembra rinsavire eccolo tornare a trasfigurare la realtà attraverso una fantasia foraggiata da anni di letture avventurose. Intorno a lui un variegato universo di personaggi ai quali la maestosa penna di Cervantes assegna un registro linguistico diverso: una polifonia di voci indimenticabili, che tratteggiano con un realismo spesso spietato la Spagna dell’epoca, in un acquerello indimenticabile di colori.
Indomito idealista, eroe romantico, folle buffone, Don Chisciotte ci consegna un personaggio
che  incarna le debolezze, le contraddizioni,
gli impeti e gli errori della maggior parte degli uomini, oggi più che mai attuale e per questo immortale. 
Resta da chiedersi: quali sono i mulini a vento di oggi? E c'è ancora voglia di combattere per quello che si ritiene vero?

giovedì 13 giugno 2013

Un'altra vittima delle mutilazioni genitali


Soheir Mohamed, 13 anni, è morta una settimana fa in Egitto a causa della mutilazione dei genitali. Il medico che ha praticato l'intervento clandestinamente, Aslan Hammouda, è stato appena rimesso in libertà in attesa del processo. Lui si difende, sostenendo di aver agito senza negligenza su richiesta della famiglia della ragazzina: “L’intervento è andato bene e la bambina non ha perso sangue”, dice convinto. Intanto ha offerto dei soldi ai genitori perché non sporgessero denuncia.
La madre della vittima ha rifiutato i soldi ed è andata alla polizia, accusando il dottor Hammouda di aver ignorato le preoccupazioni della ragazza che gli aveva chiesto se l’influenza che aveva contratto avrebbe potuto causare complicazioni. “Ha risposto di no e le ha detto di presentarsi il giorno dopo, a digiuno”.

In Egitto si muore ancora di mutilazioni dei genitali femminili. I dati ufficiali sono agghiaccianti: oltre il 90 per cento delle donne di età compresa tra 15 e 49 anni le ha subite. Tre minorenni su quattro, una percentuale che lascia senza parole. E invece bisogna trovarle le parole e fare in modo che ad esse seguano i fatti.

La legge  vieta dal 2008 le mutilazioni genitali, ma le famiglie come quelle di Soheir si rivolgono ai centri privati, dove, tra l'altro, ci sono lunghissime file. Una barbarie disumana per garantire la verginità delle donne anche a costo della loro stessa vita.

Gli organismi delle Nazioni Unite protestano, il mondo si scandalizza, intanto, Soheir non c’è più. A cosa sarà valso il suo sacrificio? Sarà sufficiente ad evitare che si formino ancora le code davanti ai centri dove, clandestinamente, si praticano queste atrocità? Le mutilazioni genitali femminili continuano in moltissimi paesi, non solo in Egitto.
Cosa si può fare che non è ancora stato fatto per fermare questo fenomeno ignobile?

mercoledì 12 giugno 2013

Noche oscura del alma


1 - In una notte oscura,
con ansie, in amori infiammata,
- oh felice ventura ! -
uscii, né fui notata,
stando già la mia casa addormentata.

2 - Al buio uscii e sicura,
per la segreta scala, travestita
- oh felice ventura! -
al buio e ben celata,
stando già la mia casa addormentata.

3 - Nella felice notte,
segretamente, senza esser veduta,
senza nulla guardare,
senza altra guida o luce
 fuor di quella che in cuore mi riluce.

4 - Questa mi conduceva
più sicura che il sol del mezzogiorno,
là dove mi attendeva
Chi bene io conosceva
e dove nessun altro si vedeva.

5. - Notte che mi hai guidato!
O notte amabil più dei primi albori!
O notte che hai congiunto
l'Amato con l'amata,
l'amata nell'Amato trasformata!

6. -Sul mio petto fiorito
che intatto per lui solo avea serbato,
Ei posò addormentato,
mentre io lo vezzeggiava
e la chioma dei cedri il ventilava

7. -Degli alti merli l'aura,
quando i suoi capelli io discioglievo,
con la sua man leggera
il mio collo feriva
e tutti i sensi miei in sé rapiva.

8. - Giacqui e mi obliai,
il volto sul Diletto reclinato;
tutto cessò, e posai,
ogni pensier lasciato
in mezzo ai gigli perdersi obliato.


San Juan de la Cruz

Questa è una delle mie poesie preferite. Mi segnalate le vostre?

martedì 11 giugno 2013

Se l'altra metà della mela ha il verme dentro:)


È una verità universalmente riconosciuta che un uomo in possesso di un paio d’occhi debba necessariamente sottoporre ad attenta analisi qualunque esponente di sesso femminile intercetti il suo campo visivo.
La cosa interessante, se notate bene, è il suo “sguardo di rientro”, ovvero l’espressione a metà strada tra il colpevole e l’attonito quando all’improvviso si accorge che lo state osservando e che avete palesemente assistito alla traiettoria dei suoi bulbi oculari durante l’intera fase di perlustrazione.
Generalmente lo sguardo di rientro è accompagnato da un sorriso complice, che vorrebbe sminuire la gravità del misfatto, ma che, il più delle volte, non fa che accentuarne la serietà, innervosendo oltre modo. Le giustificazioni addotte a tale comportamento spaziano dalla biologia alla hobbistica, tirando in ballo Darwin o i vecchi detti secondo cui “l’uomo è cacciatore”. I nostalgici di Julio Iglesias potranno anche abbozzare un “quando un uomo tradisce, tradisce a metà”, i più intonati addirittura cantarlo.
Resta da stabilire a che tipo di selvaggina appartenga la fanciulla che è stata poc’anzi oggetto delle sue attenzioni, e verosimilmente delle sue fantasie, e che tipo di vino abbinarvi.
La cosa diventa ancora più complessa quando dal settore oculistico si passa a quello dialettico dove, complice l’utilizzo alternato di un unico emisfero cerebrale, gli uomini sono perdenti in partenza. Il problema che nella quasi totalità dei casi li frega è la mancanza di coerenza dei loro racconti; sottovalutano, infatti, il radar collocato in un punto imprecisato dell’organismo femminile che consente il ritrovamento immediato di qualsivoglia incongruenza narrativa.
Esempio:
“Ricordo ancora la splendida vacanza di tre anni fa con gli amici in Svezia … che bel paese!”
“Ah, che bravo che sei … e lei come si chiamava?”
“Ma chi, Ingrid?”
“ Ah, è così che si chiamava?”
“Lei? Il nome non  lo ricordo… sono passati tre anni… e poi mica vado per questo in vacanza, io!”
“Un po’ pochi tre anni per dimenticare un grande amore, non credi?”
“Grande amore? Ma no, figurati, era una cosa così… sai com’è, quando si sta in vacanza tra uomini, quelle cose goliardiche”
“Quindi ammetti che è per questo che vai in vacanza con gli amici!”
“Ma figurati! E forse non si chiamava nemmeno Ingrid…”
“Forse?”
“Beh, Ingrid, o qualcosa del genere, insomma, adesso, così su due piedi… Ti ho già detto che sei bellissima stasera?”

Qui termina il dialogo, mentre l’ultima inquadratura sfuma sul viso viola di rabbia di lei e il labbro tremante di lui, nel vano tentativo di blaterare qualcosa di coerente …

lunedì 10 giugno 2013

Un giorno bellissimo

Chissà a cosa pensa, se pure pensa a qualcosa, quando entra furtivo nella mia stanza e resta in piedi, dietro di me, a controllare il susseguirsi veloce delle lettere che compaiono sul monitor del mio computer.

Ricordo che i primi tempi si prendeva il disturbo di fingersi impegnato in interminabili telefonate. Ora probabilmente ritiene che il suo status di capo lo renda immune da qualsiasi indulgenza alla buona educazione. Chissà cosa direbbe nonna Rosa, se fosse ancora viva, qualora le raccontassi dello squallido ufficio dove trascorro dieci ore al giorno, tutti i giorni, da due anni. Chissà cosa direbbe delle macchie di umidità che sporcano il muro, dei bagni costantemente sporchi - il personale delle pulizie costa- , del lavoro, sempre uguale, sempre lo stesso, che svolgo da settecentotrenta giorni.
Lo so: ora mi farete notare che due anni di lavoro non sono settecentotrenta giorni, perché al conteggio bisogna sottrarre i weekend. E’ vero. Ma, a parte che lavoro anche di sabato, la domenica sono così annichilita da una sorta di torpore mortale da avere la sensazione di essere ancora seduta al computer ad inserire dati. Ah, dimenticavo: è questo il mio lavoro. Inserire dati. Nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, cellulare (campo facoltativo), indirizzo e-mail (campo obbligatorio). Decine, centinaia, migliaia di schede anagrafiche ogni giorno. I primi mesi, per tenermi desta, mi sforzavo di immaginare per ognuno  di questi nomi un volto, una famiglia, una vita sentimentale. Ma questa intensa attività clandestina a fine giornata mi lasciava sfinita, quindi ho presto rinunciato, anche perché, probabilmente, doveva evincersi qualcosa dalla mia espressione, visto che un giorno, senza alcun motivo evidente, il capo mi ha fatto una terribile sfuriata, ricoprendomi di epiteti irripetibili. Quando urla in quel modo, le nuove arrivate (ne arrivano sempre) si spaventano e ci guardano in cerca di qualche segnale che le aiuti ad allineare il loro stato d’animo sul pianale di emozioni condivise. L’impassibilità mia e delle mie colleghe, allora, si accentua: è un modo silenzioso per dir loro di non preoccuparsi, che va tutto bene, che passerà presto. E invece, nonna, non va tutto bene. A volte, specie quando il giorno delle paghe non ci viene corrisposto lo stipendio, e guai a chiedere spiegazioni, le lacrime, quasi dotate di volontà propria, mi spuntano negli occhi e lo sforzo di non farle colare giù mi impegna in una battaglia di cui mi sento unica sconfitta. Allora, per darmi coraggio, passo in rassegna mentale tutti gli articoli del codice civile in materia di lavoro. Chissà cosa diresti, nonna, se mi vedessi a lavorare qui, mentre il mio capo mi urla addosso che sono un’idiota, cosa diresti, nonna, se sapessi che ho messo in un cassetto la mia laurea in giurisprudenza perché cinquecento euro al mese mi servono per non gravare sulla pensione di mamma. A lei non racconto queste cose, non voglio che si preoccupi per me, e allora invento divertenti ed improbabili cause legali che lo studio presso cui collaboro mi affida con fiducia. Non le ho mai detto che ho lasciato lo studio due anni fa, quando è morto papà, perché le promesse di una regolare retribuzione sono rimaste tali. E quando penso alla mamma, immediatamente la mia rabbia si stempera in una docile rassegnazione, dove vanno a finire tutti i propositi di rivalsa e le intenzioni di far valere i miei diritti. Beh, sarebbe una grande soddisfazione, ma poi, senza i miei cinquecento euro al mese cosa farei?

Però nonna, lo sai che qui dentro c’è anche del buono? Alcune mie colleghe sono fantastiche e due di loro sono diventate mie amiche: Carla e Margherita. La nostra è una solidarietà fatta di sguardi, perché sul lavoro non possiamo parlare tra di noi e non abbiamo diritto a pause, ma quando usciamo di qui parliamo, e come se parliamo. E allora ci facciamo forza l’una con l’altra e ci raccontiamo i nostri sogni, anche se Margherita si infuria quando parlo di sogni: lei preferisce parlare di legittime aspirazioni, perché “chiamare sogni i propri desideri significa inconsciamente attribuir loro l’etichetta di irrealizzabilità”. Margherita è così, usa le parole in maniera mai casuale, d’altronde è una giornalista e sogna, anzi, aspira, a scrivere un giorno non troppo lontano per una grande testata. Quel giorno, la canzona Carla, Margherita sarà un’importante corrispondente di guerra e lei un’acclamata attrice di teatro. E io quel giorno sarò in prima fila ad applaudirla e a ricordarle che i sacrifici fatti all’accademia di arte drammatica sono valsi a qualcosa. E tu, cosa vorresti fare, Rosa? Quando me lo chiedono io alzo le spalle, ma in fondo al cuore so che vorrei fare l’avvocato, tutelare gli interessi dei lavoratori e ridare dignità a tutte quelle vite ricoperte di foglie morte come la mia. E quel giorno, nonna, sarà un giorno bellissimo.

(Questo mio racconto è stato pubblicato dall'Antologia True Stories - verità del terzo millennio)

Un bus chiamato desiderio


Ok, diciamocelo pure. Ci piacciamo.
Ci siamo fiutate con sospetto reciproco, io con il mio bagaglio di pregiudizi nei tuoi confronti, tu con la freddezza che ammanta ogni tua giornata. Ci siamo studiate, analizzate, abbiamo firmato un tacito accordo e abbiamo deciso di piacerci.
E’ avvenuto in un momento preciso,  che ricordo come un’istantanea a colori. Io ero su un autobus affollato di gente chiassosa e bambini piagnucolosi, tu più austera del solito. Stavo andando in centro per non so cosa, ricordo però che ero abbattuta e indolente. Ho pensato: chissà se lei potrà mai piacermi. Neanche un secondo dopo, un insolito raggio di sole ha illuminato la mia schiena, mi sono voltata pigramente e sono stata folgorata. Tac! Oltre i finestrini del bus la Cattedrale di Saint Michel inondata di sole e tu che mi strizzavi l’occhio a suggellare un patto che da allora non abbiamo più tradito.

Perché è stato in quel momento che mi sono innamorata di te, Bruxelles.

domenica 9 giugno 2013

A una donna non interessano attenzioni,


A una donna non interessano attenzioni, ma attenzione
A una donna non interessa che la si ascolti, ma che la si comprenda
Non è necessaria la condivisione di un’idea, ma il sostegno
Le differenze di genere sono un arricchimento, non un pretesto per erigere monumenti al proprio egoismo
Il rispetto è più importante dell’apprezzamento vacuo e fine a se stesso
Il rispetto si declina in tante sfumature, ma sempre, dico SEMPRE, deve basarsi sul riguardo e la considerazione della personalità nella sua interezza
La sensibilità di una donna non è la suscettibilità dell’uomo, perché non affonda le radici nell’orgoglio, ma nel sentimento
L’emotività di una donna non è fragilità, è empatia
Le ferite al cuore di una donna sono ferite alla sua anima, perché quando una donna ama davvero, ama con tutta l’anima
Una donna che ama davvero è pronta a qualsiasi rinuncia, ma guai a darle per scontate, in virtù di una presunta naturale predisposizione al sacrificio
Quando una donna non si sente capita, non si sente rispettata e quando non si sente rispettata non si sente amata

E poiché è l’amore l’unico nutrimento dell’amore, una donna che non si sente amata è una donna che smetterà di AMARE

venerdì 7 giugno 2013

Disperazione e speranza sui banchi di scuola

I comportamenti violenti ad opera di adolescenti e di insubordinazione di allievi verso gli insegnanti si ripetono con crescente frequenza e le responsabilità si palleggiano tra la scuola e le famiglie. Quando leggo di questi episodi, non posso fare a meno di ricordare un’esperienza che ho vissuto personalmente.

Ho lavorato per un anno come tutor per un progetto formativo finanziato dalla Comunità Europea in un Istituto Professionale della provincia di Salerno. Il progetto era destinato a ragazzi cosiddetti “svantaggiati” che avevano abbandonato la scuola e che si tentava di recuperare. Erano studenti del terzo anno, per lo più ripetenti, di età tra i 16 e i 18 anni. Ho vissuto momenti da incubo (mi hanno anche danneggiato l’auto), tra l’indifferenza degli altri insegnanti (quasi tutti si limitavano a leggere il giornale in aula) e la rassegnazione del preside. Ma ho riscontrato anche una profonda umanità in ragazzi che solo le condizioni di partenza rendevano diversi dagli altri. All’inizio mi hanno fatto la guerra: il primo giorno di scuola uno di loro ha dato fuoco ad una sedia; fumavano, giocavano a carte in classe, si picchiavano selvaggiamente tra di loro ed erano completamente indifferenti a qualsiasi stimolo.
Poi, un giorno, l’episodio che ha segnato la svolta: dovevamo trasferirci in laboratorio per la lezione d’informatica, io mi ero avviata fuori dall’aula e avevo dimenticato la borsa sulla cattedra. Invece di tornare indietro a prenderla chiesi ad uno dei ragazzi, nella fattispecie uno dei più irruenti, la gentilezza di portarmela, notando solo in un secondo momento gli sguardi sorpresi di molti di loro. L’insegnante di informatica che era con me mi riprese duramente, dandomi della folle: secondo lui i ragazzi avevano più volte derubato i docenti. A quel punto, però, decisi di fidarmi fino in fondo, non senza, lo ammetto, il timore di aver fatto una sciocchezza. Voltai del tutto le spalle al ragazzo al quale avevo chiesto di recuperare la borsa e mi avviai in laboratorio. Dopo pochi minuti mi raggiunse l’intera classe, in religioso silenzio, senza spintonarsi come faceva di solito, senza lamentele, né improperi. In quel momento notai che qualcosa era cambiato: per la prima volta si riuscì a fare una lezione vera, tutti seduti ad ascoltare l’insegnante, non una classe modello, per intenderci, ma una classe normalmente vivace. Inutile dire che dalla mia borsa non mancava nulla. Da quel giorno il “compito” di portarmi la borsa diventò una specie di rituale a cui i ragazzi si sottoponevano a turno, quasi litigando tra loro, forse orgogliosi del fatto che i professori che li avevano sempre considerati delle nullità potessero scorgerli per la prima volta sotto una luce diversa. E non dimenticherò mai il giorno in cui, mentre tutte le altre classi scioperavano, la mia fece lezione regolarmente, lasciando stupefatto il preside che entrò in aula senza nemmeno bussare, convinto che fosse vuota, visto che non si udiva il minimo frastuono all’esterno. La mia opinione, in seguito a questa esperienza, è che spesso ragazzi che vivono in condizioni difficili - quasi tutti avevano genitori in carcere, altri erano orfani, tutti erano cresciuti per strada- semplicemente non conoscono nessun altro modo di vivere se non quello di rispettare le regole di un branco ottuso e violento.
Una maniera, tuttavia, per far breccia nei loro cuori c’è stata: è bastato trattarli come essere umani e restituire loro un briciolo di dignità, capire che se tutti li considerano delle bestie essi stessi sono i primi a considerarsi tali. Durante la prima settimana, infatti, uno di loro mi disse: “Vui vulit cagnà e ’ccose, ma statv accort cà nui nun simm come all’at” (voi volete cambiare le cose, ma state attenta perché noi non siamo come gli altri).
E’ chiaro: forse non impareranno mai il latino e il greco, molti di loro non riuscivano a parlare nemmeno in italiano, ma alcuni avevano intelligenze brillanti e alla fine dell’anno, anche se non si riusciva a spiegar loro la Divina Commedia, si commentavo i film, si dialogava delle loro vite, di quello che pensavano, di cosa volevano fare da grandi e spesso dai loro racconti emergevano degli spaccati da brivido che mi facevano chiedere quale diritto abbiamo di giudicare esistenze così disperate, soprattutto quando la maggior parte degli adulti che questi ragazzi hanno incontrato getta la spugna sin dall’inizio, ritenendo il loro percorso irrimediabilmente compromesso.

Soltanto quando ho sospeso il giudizio ho cominciato non solo a vederli, ma a guardarli veramente. E penso che per un unico sguardo di reale interesse, e non più di disprezzo, quei ragazzi avrebbero fatto qualsiasi cosa.

giovedì 6 giugno 2013

I calzini di Adamo...


Nell’affresco del Masaccio, “Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso”, il senso della tragedia umana e divina è drammaticamente espresso dai corpi nudi e imbarazzati, dal gesto pudico di Eva, dalla reazione di Adamo, che si copre il volto con le mani in segno di vergogna.

Ma se guardate bene capirete che Eva si copre timidamente, in preda ad un profondo senso di colpa: d’altronde noi donne siamo bravissime a sentirci in colpa per qualsiasi cosa, persino se non l’abbiamo commessa noi, figuriamoci quando il nostro uomo ci addita a responsabili del misfatto dinanzi all’ira divina. Adamo, invece, si copre il volto con le mani. Perché? Forse pentito di non aver preso le difese della sua donna? Forse perché avrebbe dovuto difenderla dalle insidie del serpente tentatore? Niente affatto! Se osservate con attenzione noterete che Adamo sta già rimpiangendo le delizie dell’Eden che si appresta ad abbandonare per sempre. E da questo momento in poi non farà che rinfacciare ad Eva un’infinità di cose: i calzini che cambiano miracolosamente di posto ogni mattina, le chiacchiere della donna che lo distraggono dalla guida facendogli sbagliare per l’ennesima volta strada, la pasta troppo cotta o troppo cruda. Ma dico: cara Eva non potevi farci una macedonia con quella mela? Ah, dimenticavo, ad Adamo non piace la frutta.

mercoledì 5 giugno 2013

Il sussurro della storia a Padula e Teggiano

Se state percorrendo un silenzioso dedalo di stradine medievali, tutto intorno antichi portali in pietra che sovrastano maestosi portoni, e la suggestione vi fa sentire in lontananza il canto delle donne che si recano alla fontana del paese per lavare la biancheria con acqua e cenere,  siete a Padula, nel cuore del Vallo di Diano, in quella parte della Campania che mantiene orgogliosamente intatto il suo fascino originario, permeando di bellezze paesaggistiche e tradizione popolare un territorio di grande malia.

Vi si giunge percorrendo l’autostrada Salerno- Reggio Calabria, uscita Padula-Buonabitacolo.
Lo scrigno del centro storico fa sfoggio dei remoti fasti con il sontuoso Palazzo Baronale, le Torri Angioine e i portali in pietra locale che testimoniano l’attività dei maestri scalpellini.
Ma il nome di Padula è legato a filo doppio alla sua splendida Certosa. Dichiarata dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, il monastero è il secondo per grandezza in Italia dopo la Certosa di Parma. Fu fondato da Tommaso San Severino nel 1306 ed è dedicato a San Lorenzo. Non a caso, infatti, la sua struttura richiama l'immagine della graticola sulla quale il santo fu bruciato vivo. Una visita alla Certosa consente di ammirare i sinuosi movimenti dello stile barocco ed il più esteso Chiostro del mondo (circa 12.000 m²), incorniciato da 84 colonne.
Un’imponente scala a chiocciola in marmo bianco conduce alla grande biblioteca, caratterizzata da un originale pavimento ricoperto da mattonelle in ceramica di Vietri.
La leggenda narra che nel 1535, all’interno della grande cucina del monastero, fu preparata una frittata di 1.000 uova per Carlo V, di ritorno dalla vittoriosa battaglia di Tunisi contro i Barbareschi. Per perpetuare la tradizione del leggendario episodio il 10 agosto di ogni anno, presso la Corte Esterna della Certosa di San Lorenzo, si prepara una gigantesca frittata in un’enorme padella. Per girare la frittata si usa un ingegnoso congegno meccanico, tuttora esposto presso la Certosa.
Oggi il monastero ospita il Museo Archeologico della Lucania, con una collezione di reperti provenienti dagli scavi delle necropoli di Sala Consilina e di Padula ed è meta di migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo, tuttavia non è sempre stato così:
<<Oggi la Certosa di Padula è ben altra cosa rispetto a quella che era nei primi anni ’50, quando, poco più che bambino, coi pantaloni corti, inforcavo la bicicletta e pedalavo felice lungo le profumate e polverose vie che si snodavano, deserte, nella lussureggiante campagna punteggiata di secolari querce, per rispondere ad un amorevole richiamo che mi attirava laddove, prestando l’orecchio allo spirito, si percepiva il lamento di sofferenza come quello di un gigante ferito, custode di storia, di arte, di fede, di costumi, di cultura che, per quanto umiliato, giaceva maestoso nella sua lenta e dignitosa agonia. Allora maiali e capre dimoravano in una parte di essa, mentre intere greggi vi transitavano indisturbate>>. Queste le amorevoli parole di un illustre nativo del luogo, il prof. Mario Senatore, che alla sua città ha dedicato splendidi versi.
Per fortuna, con gli anni, grazie all’impegno delle persone del posto e delle istituzioni, la Certosa è tornata all’antico splendore.
Recarsi a Padula non può prescindere da una visita alla casa natale di Joe Petrosino, uno dei poliziotti più famosi di New York. Nato a Padula nel 1860, emigrò giovanissimo con la famiglia alla volta dell’America e, arruolatosi nelle forze dell’ordine newyorkesi, iniziò una veloce scalata alle posizioni più importanti della gerarchia. Il suo nome è legato alla strenua lotta contro la mafia. A capo dell’Italian Legend, infatti, riuscì a catturare i vertici di quella che all’epoca era chiamata Mano Nera, ma la sera del 12 marzo 1909 fu raggiunto da quattro colpi di rivoltella che posero fine alla sua leggendaria esistenza. La casa natale di Joe Petrosino ha un grande valore di documentazione storica, in quanto testimonianza reale della tipica casa degli emigranti di quel periodo.
A pochi passi dalla famosa Certosa di Padula, sorge l’unico esempio in Italia di battistero ad immersione, fatto edificare da papa Marcello I nel IV secolo. Il Battistero di San Giovanni in Fonti fu costruito su di una sorgente le cui acque vennero utilizzate dai cristiani per la funzione del battesimo. In un’epistola di Cassiodoro indirizzata al re dei Goti, Alarico, viene riportata la notizia secondo cui il bacino delle acque aumentava miracolosamente di volume durante la notte dell’Epifania, quando si praticava il battesimo. Il battistero presenta  splendidi affreschi con i volti degli evangelisti raffigurati secondo lo stile della pittura bizantina dell’Italia del Sud.
Da Padula, percorrendo la SS 19, si giunge a Teggiano, piccolo borgo ricco di testimonianze di un glorioso passato, caratterizzato da un impianto urbanistico spiccatamente medievale in cui il centro abitato si dispone intorno ad un monumentale castello appartenuto ai Sanseverino, principi di Salerno.
A Teggiano tutto parla di storia e di arte: i reperti di età romana sulle facciate delle case; gli stemmi gentilizi sulle dimore signorili; i chiostri splendidamente affrescati; il portico quattrocentesco che per secoli è stato il Sedile dove si riuniva il Parlamento della città.
A ricordo del regale matrimonio avvenuto nel 1480 tra il Principe di Salerno Antonello Sanseverino e Costanza, figlia del Duca di Urbino, ogni agosto si celebra un evento che è ormai diventato una formidabile attrattiva per i turisti di ogni parte d’Italia. Si tratta della tre giorni organizzata dalla Pro Loco “Alla Tavola della Principessa Costanza”. In questa occasione sono aperti alla pubblica ammirazione tutti i monumenti di Teggiano, mentre le vie cittadine sono animate da sbandieratori, tamburini, musici, giocolieri, menestrelli e mangiafuoco. Ma la vera chicca è la possibilità di percorrere un itinerario prestabilito, lungo il quale si snodano antiche taverne, ciascuna contrassegnata dal suo peculiare stemma, che offrono ai visitatori le tradizionali pietanze medievali. La Taverna della Congiura, la Taverna dei Mori, la Taverna dell’Assedio, la Taverna della Vecchia Porta, la Taverna de lo Falco consentono di deliziarsi con salsiccia, salame et cacio fresco, parmatieddi cavatieddi et fasuli co la porva, salsiccia de porco in su la brace et provola rostita, civiere de cinghiale o de agnello, per finire in dolcezza con bicchinotto, tunnuliddo et coronetta et pizzichino a volontà. La sensazione di essere stati catapultati indietro nel tempo è enfatizzata dalle monete del XV secolo, ducati, tarì e tornesi, prelevabili alla “Banca del Cambio” e utilizzabili per l’acquisto delle pietanze.
La seduzione della rievocazione storica induce ad una visita alla dimora dei Sanseverino, il prestigioso castello che domina Teggiano. Sorto in epoca normanna, è uno dei più importanti dell’Italia Meridionale ed è stato sede di due fatti storici memorabili: la congiura dei Baroni contro re Ferdinando I d’Aragona e l’assedio di Diano del 1497.
Teggiano è ricca di antichissime chiese che meritano senza dubbio una visita: la chiesa di Sant’Antuono, eretta probabilmente prima del XI secolo, conserva un ciclo di affreschi medievali da poco riportati alla luce in seguito a lavori di restauro; la chiesa della SS. Pietà presenta un pregevole portico rinascimentale ed un importante chiostro con affreschi di fine ‘500; la chiesa di Sant’Agostino risale al 1370 e vanta uno splendido chiostro ed un ciclo di affreschi del XVII secolo raffiguranti la vita di Sant’Agostino, mentre all’interno conserva una preziosa tela raffigurante il supplizio di Santa Margherita.
La visita a Teggiano non può concludersi senza una sosta al Museo della Civiltà Contadina, forziere di reperti mantenuti vivi nella loro funzione originaria, dall’antico telaio, tuttora funzionante, alla gramola per la canapa, dai dinapatoi ai filatoi, dagli aratri per cavalli e buoi alle lucerne, senza dimenticare una stupefacente collezione di attrezzi per lavorare la terra, simbolo di una vita contadina che sembra ormai lontanissima e che pure vive immutata nelle memorie degli anziani del paese. Ma il valore di testimonianza più suggestivo è dato dalle collezioni fotografiche raffiguranti teggianesi di inizio secolo, impacciati e quasi imbarazzati nelle loro forzate pose, ma con lo sguardo fiero e dignitoso di chi conduce una vita di lavoro e sacrifici. Quasi in stridente contrasto con le umili vesti dei contadini, spiccano i ritratti dei signori dell’epoca, con i loro ricchi costumi e i preziosi ornamenti. Splendide le donne in pose civettuole e le bambine in atteggiamento giocoso, appena smorzato dal tentativo di imitare la compostezza delle loro madri.
Padula e Teggiano, due perle del nostro inestimabile patrimonio storico e artistico.

Chiudete gli occhi e lasciate posto al silenzio: sentirete in lontananza il rumore degli zoccoli dei cavalli, il suono della tromba del banditore che annuncia la presenza di venditori ambulanti nella piazza, le voci festose dei balli nobiliari, il trambusto delle frenetiche attività delle cucine nei giorni di festa e vi sembrerà di sentire per un attimo la voce autorevole della storia che vi parla.

Capri, sintesi armonica di meravigliosi contrasti

Il sole, il mare, il ritmo rilassato, la bella vita: questa è Capri nell’immaginario collettivo che restituisce al mondo l’idea di un’isola da favola, una cartolina immutabile di suggestioni e atmosfere incantate.

Capri è stata crogiolo di intellettuali e artisti, musa ispiratrice di poeti e musicisti, nonché luogo mitico dal glorioso passato, scelto dagli imperatori Tiberio ed Augusto come rifugio di cui ancora oggi è possibile ammirare emozionanti memorie.
Sembra, infatti, che il destino dell’isola azzurra sia proprio quello di evocare desideri di evasione e allontanamento dalla routine quotidiana, quasi come se la sua dimensione naturale fosse quella onirica, in cui tutto è ovattato e filtrato dalla bellezza.
Un luogo patinato, dunque, a cui fa da stridente contrasto una natura fiera e selvaggia che esplode nel caleidoscopio di sfumature del suo mare cristallino e nel violento colore della sua macchia mediterranea.
Due i simboli dell’isola: i faraglioni e la piazzetta, metafora i primi della sua valenza turistica, i secondi della sua nota facciata mondana.
Una visita a Capri invita certamente ad indugiare per gli stretti vicoli ricchi di piccoli negozi, grande attrattiva per lo shopping, e a sostare presso la piazzetta, nel tentativo di rivivere l’emozione dei protagonisti di grandi film. Tuttavia basta liberarsi per un attimo dagli stereotipi sull’isola, per scoprirne una dimensione nuova.
Ad un occhio attento e scevro da condizionamenti, infatti, Capri svela un volto sconosciuto, dal fascino discreto, che non necessariamente abita in luoghi poco noti, ma che può albergare anche in posti assolutamente manifesti, come la Grotta Azzurra.
Famosa in tutto il mondo per la intensa colorazione dell’interno, ha fortemente impressionato i grandi scrittori romantici, da Andersen ad Alexandre Dumas padre.
Per entrarvi è necessario usufruire di una delle piccole barche a remi ormeggiate all'esterno; l’ingresso molto angusto fa sì che vi si debba entrare stando distesi sul fondo della barca.
Un secondo ingresso, completamente sommerso, conferisce il caratteristico colore azzurro alla grotta, in virtù di un fenomeno di riflessione della luce solare. All’interno si assiste ad uno spettacolo dai tratti surreali, cosicché si ha l’impressione di galleggiare sospesi nel cielo. Ad accentuare l’effetto irreale è la singolare acustica della grotta che amplifica i suoni dando vita ad uno straordinario concerto.
I pittoreschi vicoli ricchi di preziose boutique, la Piazzetta, la grotta Azzurra: gli occhi pieni delle meraviglie della Capri più nota lasciano volentieri posto ad una Capri più pudica, ma ansiosa di essere svelata. A pochi passi dalla piazzetta è possibile, infatti, godere della sobria bellezza dei Giardini di Augusto. Sono stati risistemati negli anni '30, per volere del magnate tedesco dell'acciaio Krupp, che volle realizzata anche la via omonima.
Ognuna delle terrazze dei giardini offre un panorama differente a cui fa da sfondo la colorata flora locale. Dalle terrazze si gode di una vista privilegiata sui Faraglioni, che emergono eroici dal mare, a testimonianza della loro volontà di sopravvivere all'erosione del mare e all’azione degli agenti atmosferici. Diventati familiari figure del paesaggio caprese, a loro si rivolge il saluto quasi come a degli amici di famiglia ed infatti li si chiama per nome: Stella il primo, Faraglione di mezzo il secondo e Scopolo il terzo. Quest’ultimo dà dimora alla famosa lucertola azzurra, rintracciabile solo qui e che sembra abbia adattato il colore delle sue squame a quelli del mare e del cielo capresi.
Lo sguardo rivolto all’orizzonte e la mente persa in inenarrabili fantasie è lo stato suggerito dallo spettacolare panorama della Migliera, la via che  ricalca l'antico tracciato della strada romana che conduce al Belvedere. Da qui ci si affaccia a strapiombo sulle cale del Tuoro e del Limmo e su Punta Carena, dove si erge solitario il Faro.

Il lusso delle scintillanti vetrine ed il silente borgo marinaro, il brusio ininterrotto della gente che anima la Piazzetta e la serenità dei Giardini di Augusto, gli alberghi eleganti e le passeggiate tra le rocce a strapiombo, la folla dei turisti e le piccole botteghe artigiane: questa è Capri, luogo di armonico connubio tra contrasti che nell’antitesi trovano la loro profonda ragione d’essere.

martedì 4 giugno 2013

Dialogo tra sordi


L’incomunicabilità tra i sessi è sempre esistita. Deve averlo pensato anche la sfortunata Leonora quando, accingendosi all’estremo sacrificio, si umilia prostrandosi ai piedi del Conte di Luna chiedendo la grazia per l’amato Trovatore, condannato a morte dal nobile crudele. Tuttavia, quando lei gli appare davanti, lui le chiede stupito cosa ci faccia lì e Leonora, retorica e sprezzante: <<Lui è vicino alla morte e tu mi fai questa domanda?>>
Ai giorni nostri di certo il Conte di Luna l’avrebbe mandata via e avrebbe continuato indisturbato a guardare il derby in tv, assolutamente incurante, o quantomeno inconsapevole, del dolore della donna. Nella fattispecie, invece, si diverte a torturarla manifestandole la ferma volontà di uccidere il Trovatore e solo quando lei gli si offre come merce di scambio accetta la richiesta di grazia, sorvolando sul fatto che la donna ama un altro e che solamente in virtù di questo amore accetta di sacrificarsi e di concedersi a lui. Ma tant’è, non è mica il caso di badare al pelo nell’uovo. L’importante è raggiungere l’obiettivo finale. Non meno ottuso, d’altronde, si rivela il Trovatore, che, dinanzi alla possibilità della inaspettata salvezza, rifiuta sdegnato, dando a Leonora dell’infame per aver “tradito il loro amore”. Penso che con ogni probabilità Leonora si sia sentita mancare al pensiero di aver sacrificato la sua vita (pur di non darsi al Conte di Luna ha, infatti, ingerito del veleno) per l’ingrato uomo che ora la insulta senza mezzi termini. “Prima che d’altri vivere, io volli tua morir!” esclama nell’ultimo impeto di vita, mentre finalmente il Trovatore si ravvede, naturalmente troppo tardi.
Eh sì, non c’è che dire, poco o nulla è cambiato da allora: le donne 
continuano ad immolarsi sull’altare del sentimento, mentre gli uomini 
combattono ottusamente tra loro spostando la competizione dal campo
 di battaglia al luogo di lavoro, al campo di calcio o alla consolle della playstation. 

Donne e autostima: un binomio non sempre perfetto

Donne che mantengono per anni relazioni con uomini indifferenti ed anaffettivi, donne che intrecciano sistematicamente relazioni con uomini violenti, mogli che subiscono violenze domestiche quotidiane senza il coraggio di ribellarsi: la cronaca ogni giorno sottopone al nostro sguardo incredulo decine di storie analoghe. E allora ci si chiede come mai fatti del genere avvengono con sempre maggiore frequenza e in maniera trasversale, interessando un universo femminile di tutte le età, di qualsiasi condizione sociale e di diverso livello culturale. Ad un esame più attento emerge con forza un filo rosso che lega questi episodi: la scarsa autostima delle donne che ne sono vittime.

Senza necessariamente toccare gli episodi più estremi, la non accettazione di sé si ripercuote in diversi ambiti, anche, e forse soprattutto, in quello delle relazioni sentimentali.
Capita, talvolta, di trovarsi di fronte a comportamenti di cui non si indovinano il significato, il fine, la ragione. E allora si fanno congetture, supposizioni, ipotesi della cui esattezza non si avrà quasi mai conferma. Ho conosciuto decine di donne, e talvolta provato sulla mia pelle, la tortura di lasciare sciolte, nel variegato universo delle emozioni, le briglie della fantasia circa gli intendimenti che guidano il comportamento della persona amata. E allora ci si interroga, ci si dà risposte che di volta in volta mutano con il mutare dei sentimenti, delle speranze, delle ire, delle aspettative deluse, assumendone, ogni volta, i contorni ed i colori, cosicché un gesto che tarda ad arrivare, o un comportamento inatteso, si camuffano di giustificazioni talvolta verosimili, talvolta, invece, improbabili, ma che sempre portano con sé la scia del groviglio inestricabile dei pensieri e delle emozioni di chi elucubra ininterrottamente in attesa del gesto risolutore che, come per incanto, regali finalmente il tassello fondamentale per vedere il mosaico nel suo insieme.
Mi è capitato spesso di notare come in una storia d’amore le aspettative deluse derivino da una errata valutazione dell’importanza che l’altra persona dà al rapporto.
Di frequente le donne danno origine a pensieri ramificati che si avvitano su se stessi, nella speranza vana di riuscire a dare una risposta univoca a domande impellenti.
Come si fa, ad esempio, a decifrare correttamente l’intensità del sentimento dell’altro o la sua volontà di alimentarlo investendo in un rapporto a due? Esistono, cioè, dei parametri oggettivi sulla base dei quali decodificare i reali intendimenti dell’altra metà?
Un tradimento, ad esempio, equivale sempre ad una mancanza d’amore nei confronti della persona tradita? Una telefonata che non arriva, un’attesa protratta più del dovuto, risultano elementi probanti per definire con esattezza la scarsa intensità del sentimento dell’amato?
E, d’altronde, chi stabilisce, qual è il “dovuto” tempo d’attesa di un gesto desiderato, al quale magari si attribuiscono significati distanti anni luce da quelli di cui invece li connota l’altra persona? Esiste un decodificatore di segnali che eviti di investire tempo ed energie in rapporti sbagliati, non tali perché, sulla scia degli eventi, si rompono, ma perché già in partenza destinati a finire in virtù del diverso coinvolgimento delle due parti?

Come si fa, insomma, a capire che siamo di fronte alla persona “sbagliata”? E quando, invece, i nostri dubbi e le nostre perplessità sono riconducibili ad una insicurezza di fondo?

Una pudica dama vestita di verde e d'azzurro

Ha l’aria di una signora raffinata e distinta questa elegante cittadina della Lombardia, quasi inavvicinabile nella sua ricercatezza, ma ad un corteggiatore discreto e rispettoso essa sa svelare con pudore le sue grazie.
Felicemente collocata ai piedi delle Alpi e del Sacro Monte, sulle rive dell'omonimo lago, la “Città Giardino” avvolge il visitatore in un manto di verde e di azzurro, di cui le hanno fatto dono la ricca vegetazione e i numerosi corsi d’acqua che la caratterizzano.
A Varese c’è tanto da vedere, l’importante è predisporre lo spirito alla scoperta di una bellezza quasi sussurrata, mai ostentata e mai volgare, capace, tuttavia, di prorompere con inatteso vigore imponendo sorpresa e stupore al suo cospetto.

La nostra visita inizia da Palazzo Estense residenza di Francesco III d'Este, Duca di Modena e signore di Varese dal 1765 al 1780. Il compito di trasformare l’edificio fu affidato all’architetto Giuseppe Bianchi che ne progettò la facciata su imitazione della residenza imperiale di Schönbrunn, facendo confluire lo stile tardo barocchetto in evidenti influssi neoclassici.
Un inno alla bellezza è lo splendido giardino all’italiana che circonda il palazzo inerpicandosi fino alla cima della collina dalla quale è possibile ammirare un incantevole panorama della città.
Attualmente Palazzo Estense è sede degli uffici Municipali e una sua ala ospita la Biblioteca Civica, ma lasciandosi cullare dalla suggestione del posto non è difficile sentire ancora in lontananza gli echi della vita di corte: grandiose feste, cerimonie nuziali, battute di caccia,  giochi di carte, gare di biliardo, sontuosi banchetti mostrati ai commensali grazie alle portantine, signore riccamente agghindate intente a sorseggiare con malcelata civetteria l’innovativa prelibatezza esotica che appassiona la nobiltà dell’epoca: la cioccolata. Il nostro itinerario prosegue lungo il filo conduttore dei parchi e dei giardini alla volta di Villa Menafoglio Litta Panza: tra i più significativi bene del FAIFondo per l'Ambiente Italiano -la villa fu costruita a partire dal 1748 per volere del marchese Paolo Antonio Menafoglio e domina maestosa e altera il panorama dall'alto del colle di Biumo Superiore. Una visita alla Villa non può prescindere dalla celebre collezione d’arte contemporanea raccolta dal 1956 ai giorni nostri dalla famiglia di Biumo. Nei saloni e nelle grandi scuderie sono, infatti, esposte oltre cento opere di artisti contemporanei, ricchi arredi del periodo che va dal XVI al XIX secolo ed una rilevante  raccolta di arte africana e precolombiana. Ma il fiore all’occhiello della villa resta il suo superbo giardino all’inglese, un vasto parco di oltre 33.000 metri quadrati, ridisegnato nei primi decenni dell'Ottocento in base ai principi del paesaggismo inglese, che andarono ad armonizzarsi con le due grandi fontane centrali, tipiche del giardino formale settecentesco. Il parco offre oggi romantici angoli, come il laghetto, la grotta e la collina del tempietto, dove poter contemplare in assoluta serenità lo splendore dell’insieme.
Altra tappa fondamentale di questo nostro percorso nella Città Giardino è Villa Recalcati, oggi sede della Provincia, emblematico esempio di architettura suburbana settecentesca italiana. Difficile resistere al fascino di una struttura che, trasformata nel 1874 nel “Grande Albergo Excelsior”, ebbe come ospiti illustri Giuseppe Verdi e Gabriele D’Annunzio, diventando un saldo punto di riferimento per le personalità dell’epoca. Quando ne si varca la soglia il motivo di questa preferenza appare nella sua lampante evidenza: il portico a tre archi sembra una scenografica quinta barocca, la sobria facciata prelude alla magnificenza del giardino botanico aperto al pubblico, trapunto di fontane, statue, ninfei e grotte, i meravigliosi affreschi all’interno della villa lasciano stupefatti.

Adagiata su sette colli come Roma, opulenta di fastosi palazzi e ricchi giardini, ma anche di silenti luoghi di culto, la città di Varese saluta il visitatore celandosi ritrosa dietro un velo di pudore, ma suggellando con lo sguardo una promessa di aspettative non disattese.