Quando torno in Italia la prima cosa che mi colpisce è la
luce. Morbida, calda, avvolgente. Poi l’aria, che si lascia respirare dolce e
leggera.
Quindi il cielo. Basso, mi verrebbe da dire. Appena sopra la
mia testa. Non distante, non altero, ma presente e portatore dell’illusione di
poterlo afferrare solo alzando un braccio.
Ogni volta che torno in Italia i miei occhi avvertono una
pressante urgenza alla dilatazione. I colori più vividi quasi mi stordiscono e
devo spalancare bene gli occhi per coglierli tutti ed elaborarli in immagini
che poi diverranno ricordi e, in seguito, foraggio creativo.
Ma non sono la luce, né l’aria, né il cielo a farmi sentire
a casa e raramente provo nostalgia per il luogo in cui sono nata.
Proprio mentre mi chiedo cosa faccia dell’Italia il mio
Paese mi volto all’improvviso al suono di alcune voci femminili.
Non è quello
che dicono, né il tono in cui parlano a farmi provare questa improvvisa
epifania.
E’ la Lingua. Una violenta, repentina e potente sensazione
di appartenenza mi avvolge. Una sorta di richiamo, di riconoscimento.
E’ la mia
lingua! Quelle persone parlano la mia lingua!
Quei suoni io li conosco, sono dentro di me, sono la mia
infanzia, sono io bambina che imparo a parlare, sono la mia famiglia, sono i
miei amici, sono la mia casa natale, sono i miei giochi, sono IO.
E solo allora capisco
cosa intende Sepulveda quando dice: la tua patria è la tua lingua.
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